La foglia di platano di Alessandro Canu

La foglia di platano di Alessandro Canu

   Lungo il marciapiede coperto di fango e neve il freddo pungente ci costringe a muoverci avanti e indietro, e ci fa battere con forza per terra i piedi, resi insensibili dal gelo. Manca una settimana al Natale e nell’aria si avverte già qualcosa di diverso. Forse un’aria più tonificante e leggera, come una libertà inaspettata che sta finalmente per arrivare, dopo i bombardamenti delle ultime settimane e la corrente elettrica razionata per poche ore al giorno. Il nevischio che cade abbondante da alcuni giorni ricopre gli alberi spogli e le strade, lungo l’arteria periferica che collega i quartieri più lontani col centro di Odessa.

   Intanto che aspetta l’autobus con la madre un bambino gioca sul marciapiede. Un lungo filo di lana è legato al suo polso, tra il guanto e la manica del cappotto rosso. Un cappello di lana dello stesso colore è calato fin quasi sugli occhi, lasciandogli liberi soltanto il naso e le guance, lividi per il freddo. Sembra un Nonno gelo in miniatura, goffo e impacciato dai vestiti pesanti. Il bambino tira a sé il filo, in fondo al quale è legata una grande foglia tardiva di platano, carica dei colori bronzo e oro che l’inverno le regala, e che lui si diverte a far strisciare sul marciapiede coperto di ghiaccio. La madre lo richiama di continuo,  Vla-ad,  gli grida, ma il bambino finge di non sentirla, mentre si allontana dalla sua foglia, sbrogliando il filo arrotolato attorno alla sua mano. Si ferma a metà del marciapiede e la osserva a lungo, corrugando la fronte, poi dà una violenta scossa al filo, richiamandola a sé. Grattando sul ghiaccio la foglia striscia come un cucciolo ubbidiente avvicinandosi al bambino, che le assesta un’ultima strattonata, prima di afferrarla e stringersela al petto. Il piccolo Vlad percorre in quel modo il lungo marciapiede, avanti e indietro, mentre gli adulti si guardano attorno, in silenzio, preoccupati, scrutando il fumo nero che si alza dietro i palazzi, dopo una lontana esplosione, in un quartiere più a ovest della città. Il bambino con la foglia stretta al petto gira lo sguardo verso la madre, che gli fa cenno di continuare a giocare. Non è niente, lo rassicura, indirizzandogli un gesto negativo del mento. Lo guarda con tenerezza stringersi al petto il suo giocattolo, sa che quella foglia sarà forse l’unico regalo che il bimbo riceverà quest’anno per Natale. Gli adulti chiacchierano e imprecano e fumano sigarette nemiche senza filtro. Quest’anno non avranno la solita kutia per Natale, il dolce della loro infanzia, fatto di grano cotto, noci, uva sultanina, papavero e miele. 

   La madre non perde mai di vista il proprio bambino, e quando lui si allontana troppo lo richiama con un grido secco e familiare. Il bambino finge di non sentirla, ma quando la donna accenna minacciosamente ad avvicinarglisi torna subito indietro, trascinando la sua bella foglia di platano, senza mai rispondere esplicitamente al suo richiamo.

   L’autobus, come sempre, tarda ad arrivare. Sullo schermo del cellulare, per ingannare il tempo dell’attesa io e Marina, guardiamo su You Tube la famosa scena della carneficina dei cosacchi sulla scalinata del film, la corazzata Potëmkin, di Ėjzenštejn. Oggi, con la scusa di uscire insieme per alcune compere di Natale, ho promesso di portarla al porto, dove prospetta la monumentale scalinata.

   Sono curioso di rivedere il film per intero, dico a Marina. Magari potremmo vederlo insieme stasera a casa. Lei però non sembra entusiasmarsi troppo all’idea di passare due ore con me a vedere un film muto in bianco e nero. Durante il percorso, dal piccolo appartamento che abbiamo preso in affitto, alla fermata dell’autobus, non è stata molto espansiva. Quando le ho chiesto di accompagnarmi in centro per comprare un albero di natale, mi ha risposto che i russi hanno cominciato a bombardare la città e non si può essere sicuri di trovare ancora dei negozi aperti, e quando le indico il bambino che, indifferente a tutto, gioca ancora con la sua foglia, lo guarda con distratta sopportazione. Marina non ama particolarmente i bambini.

   Lei è uzbeka, ha capelli neri con qualche filo bianco, zigomi alti, occhi allungati. È una inviata di guerra, delle guerre di oggi. Guardare film in televisione l’aiuta soltanto a distrarsi dall’orrore quotidiano a cui è costretta, sempre più stancamente, ad assistere.

   Ci siamo conosciuti in Bosnia Erzegovina, vent’anni fa. Lei era in quella regione per documentare la ricostruzione di alcune città distrutte dalla guerra fratricida dei Balcani. Io ero a Srebrenitsa, per fotografare il memoriale che ricorda gli uomini massacrati dalle truppe del generale Mladić. Ci incontrammo lì, in quell’immenso campo verde, punteggiato da 8200 lapidi bianche. Attorno a noi le donne musulmane pregavano e piangevano, aggrappate a quelle tombe, dov’è scritta una data di nascita diversa per ognuno di quei poveri uomini trucidati, ma dove la data di morte è la stessa per tutti. Marina mi vide fotografare quelle donne e mi chiese per quale giornale lavoravo. Io le risposi che lo facevo per me soltanto, perché volevo capire quell’orrore. Sorrise e mi propose di vendere le mie foto al suo giornale. Mi fece anche promettere che lei non l’avrei mai fotografata. Da allora non ci siamo lasciati più.

    In queste settimane abbiamo scelto di stare qui, a Odessa, a raccontare quello che succede, ma oggi volevamo pensare soltanto al nostro Natale. All’albero, al quale io non voglio rinunciare, alle palline dorate, al finto muschio e alla finta neve, di cui a lei invece non importa niente. Siamo profondamente diversi io e Marina, ed è per questo che stiamo ancora insieme, o forse perché ho mantenuto la promessa di non fotografarla mai. Ora però lei batte nervosamente un piede sull’asfalto e controlla l’ora sul suo cellulare, mentre sbuffa e si lamenta della mia fissazione per le tradizioni natalizie. Dice di odiarmi quando, alle volte, le canto all’orecchio, Silent night, ostinandomi a imitare la voce appassionata e calda di Bing Crosby. Dice che le urto i nervi, ma so che non è vero.

    Finalmente, laggiù, in fondo alla strada, arrancando a fatica lungo la strada ghiacciata, un autobus colorato di rosso e bianco si avvicina a noi. I passeggeri in attesa sul marciapiede aspirano fino all’ultima boccata l’amaro tabacco dalle loro sigarette. Gettano a terra i mozziconi ancora accesi, schiacciandoli sulla neve con la punta della scarpa.

   Moya lyubov! grida la giovane mamma al suo bambino. Mentre l’autobus si avvicina il piccolo tira a sé la cordicella, arrotolandosi il filo di lana attorno al polso scoperto. Lo avvolge piano, con cura paziente. La grossa foglia striscia sulla neve, avvicinandosi al bambino come un giocattolo meccanico. Quando gli arriva vicino la raccoglie e, facendo attenzione che non si spezzi, la protegge con la mano dalle gomitate e dagli urti degli altri passeggeri. La tiene sotto al cappotto, stretta al petto, come un giocattolo prezioso. La mamma se lo tira su in braccio e trova posto su un sedile, proprio davanti a noi. Il bambino si volta e i suoi grandi occhi incontrano il mio sguardo. Mi osserva in silenzio, versando due laghi azzurri nel bruno scuro dei miei. Gli sorrido, ma lui non risponde al mio invito. Gli faccio una smorfia buffa e fingo di rubargli la foglia, ma lui se la stringe ancora più forte al petto. Marina mi dice di farla finita di giocare con i bambini. Io fingo di non sentire il suo rimprovero. A bassa voce, rivolgendomi soltanto a lui, gli canto la più bella canzone del Natale che conosco.

Silent night, holy night!

All is calm, all is bright…

Il bambino mi guarda e si incassa sul collo della madre che lo rimprovera dolcemente di non pesarle troppo. I suoi occhi spalancati continuano a fissarmi, io gioco ancora a rubargli la foglia, e stavolta mi sorride.

Silent night, holy night!
Shepherds quake at the sight…

   Continuo a cantargli la canzone del Natale, mentre lui è indeciso se continuare ad ascoltare la voce di un estraneo o voltarsi verso la madre e ignorarmi. Alla fine la sua curiosità cede e sussurra nella sua lingua la mia stessa canzone, smangiando le parole e tirando su col naso, come fanno i tutti i bambini.

Tykha nich, svyata nich,

Vse spokiyno, vse svitlo…

   Quando finisce mi dona un sorriso e si abbassa sul sedile, lasciando visibili solo gli occhi.

   – Mi regali la tua foglia? – gli chiedo, porgendogli la mano.

Solo allora si volta completamente dall’altra parte, affondando il viso nel petto  della madre.

   Quando, alcune fermate dopo, scendono dall’autobus, il bambino srotola la cordicella, liberando la foglia. Se la trascina ancora appresso, stando bene attento a non farsela rompere da nessuno. Si volta un istante, per cercarmi ancora dietro al vetro dell’autobus appannato dal gelo. Io gli rivolgo un gesto con la mano, quasi un saluto da camerata e lui mi sorride.

  Shchaslyvoho Rizdva, articolano le sue labbra. Anch’io gli sorrido quando alza in alto la sua foglia meravigliosa per mostrarmela un’ultima volta. Buon Natale anche a te.. – gli sussurro da dietro il vetro, prima che l’autobus riparta.

   Poi udiamo il rumore delle gomme sull’asfalto sconnesso e le sirene che iniziano a diffondere il loro angosciante ululato. Marina è seduta accanto a me e osserva inquieta la gente che affretta il passo e la strada che si va svuotando. Non approva la mia idea di comprare un albero di Natale. Non è tempo di festeggiare, ripete di continuo. Non avremo internet, né elettricità, neppure per accendere una lampadina.

   Prima che l’autobus svolti in fondo alla strada si sente un altro boato, questo più vicino dell’altro, poi un crepitare di fucili automatici e delle urla. Dentro l’autobus si fa un silenzio tombale. Mi volto a guardare indietro e riesco a vedere ancora il cappotto rosso del piccolo Vlad. Pochi secondi dopo l’autobus svolta a destra. Poi soltanto il rumore dei pneumatici sull’asfalto, a ricordarci cosa dobbiamo fare.

Motivazioni della giuria

Il racconto partendo dall’immagine tanto semplice quanto poetica di un bambino che si trascina appresso, quale unico dono natalizio una foglia di platano ha la capacità sia inventiva che di capacità letteraria di aprirsi a scenari più vasti. Il racconto accetta con coraggio la sfida di confrontarsi con una realtà estremamente drammatica come quella della guerra e riesce a delineare un disegno unitario pur nel giro delle poche pagine che lo compongono, riuscendo a mitigare, almeno in parte, l’orrore della guerra con la gioia del bimbo nel giocare con la “preziosa foglia”.

Premio: buono libri offerto dalla libreria Borri Books.

© disegno di Alessandro Canu

Biografia dell’autore Alessandro Canu

© Alessandro Canu

Ha frequentato l’Accademia di belle Arti di via Ripetta a Roma, diplomandosi in scenografia.

Ha lavorato, tra gli altri, come assistente scenografo di Uberto Bertacca presso il teatro Sistina di Roma con Pietro Garinei e successivamente con l’attore Paolo Poli.

Ha partecipato alla realizzazione del film: “La madre”, dell’Orso d’Oro a Berlino Gleb Panfilov, girato tra Mosca e Niznj Novgorod.

Ha lavorato come scenografo all’allestimento de: “L’uomo, la bestia e la virtù” di L. Pirandello, con la regia di Paolo E. Landi, presso il Teatro Nazionale in lingua russa della Lettonia a Riga. 

Ha inoltre lavorato per numerosi teatri a Roma e in Italia.

Ha insegnato Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari.

Ha partecipato a collettive di artisti e ha allestito personali delle proprie opere, tra le quali:

– Nessun Dolore, Tarquinia Giugno-Luglio 2008;

– Vuoti di memoria, Tarquinia Luglio-Agosto 2012.

Vive a Tarquinia dove insegna Storia dell’Arte e Disegno presso il locale liceo scientifico.

Con la sua Vespa rossa compie lunghi viaggi attraverso l’Europa, duranti i quali fotografa, disegna e scrive cronache e racconti legati al viaggio.

È nato a Ossi, un piccolo paese del Logudoro sardo, nell’aprile del 1956.

Il pensiero di 3 su “La foglia di platano di Alessandro Canu

    1. Grazie Guido, ho molto apprezzato anch’io l’originalità del tuo racconto e il punto di vista particolare dei tre cani.

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